Aniello Califano (1870 - 1919)

Capita spesso, visitando i cimiteri oppure soffermandosi sulle tombe che punteggiano le navate delle chiese, di leggere quei caratteri incisi sul marmo e di fermarsi, silenziosi, magari assorti dinanzi al nome del defunto. Un senso di dolore, di malinconia sembrerà invadere il nostro animo e forse, dal profondo, potrebbe riemergere l’incipit dei Sepolcri: “All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
Confortate di pianto è forse il sonno
Della morte men duro?” (Ugo Foscolo, 1835).

Ebbene, sul freddo marmo tombale non restano incisi solo i nomi dei grandi, ma anche quelli degli umili, dei “piccoli”. La morte, infatti, è una “livella”, una sorta di risposta democratica ed egualitaria alle velleità umane di eternità. Tutto inizia, tutto finisce, ma nulla, a dispetto di quello che si possa immaginare, scompare del tutto. Perciò, nei prossimi mesi proverò a restituire la voce a quanti ormai sono muti, in silenzio: i defunti. Lo farò interrogando le tombe e lasciando parlare, grazie alle testimonianze documentarie e bibliografiche, i protagonisti, coloro che occupano i sepolcri dei nostri cimiteri e le tombe delle nostre chiese.

In una sorta di viaggio alla scoperta del passato, “le tombe raccontano” storie ormai dimenticate, parlandoci di uomini e donne più o meno illustri; potranno così riemergere, un po’ come vagheggiò Edgar Lee Masters nel suo classico “Antologia di Spoon River”, le voci dei morti che riposano lì, “nel cimitero sulla collina”. E per cominciare questo nostro viaggio, quasi una discesa agli inferi e ritorno, dobbiamo raggiungere la zona collinare di San Renato a Sorrento, dove sorge, dagli anni ’70 dell’800, il cimitero cittadino.

Varcando il monumentale ingresso, si deve girare a destra e dirigersi verso la parete di fondo: inizia lì, in quel settore del cimitero sorrentino, la nostra storia. Un loculo, abbellito da un frondoso alloro bronzeo, reca incisa un’iscrizione breve ma al tempo stesso commovente, dettata dal poeta Libero Bovio: “Aniello Califano, il poeta di Sorrento qui riposa accanto a mamma sua”. Poetica, intensa: questa iscrizione, risalente al 1923, è il punto di partenza della nostra storia perché spesso, per comprendere i fatti, non bisogna seguire un rigoroso ordine cronologico ma partire dalla fine. Anzi, da ciò che c’è dopo la fine.

L’11 novembre del 1923, dopo un lungo e complesso iter, le spoglie del poeta e paroliere Aniello Califano furono traslate a Sorrento. Era morto, quattro anni prima, cioè il 20 febbraio del 1919, a Sant’Egidio del Monte Albino, nella villa paterna. Ma l’impegno, lo zelo e l’amore di Silvio Salvatore Gargiulo, in arte Saltovar, fecero il miracolo: grazie al sostegno del sindaco Lelio Cappiello e di un comitato cittadino, guidato dall’albergatore Guglielmo Tramontano, le spoglie di Califano poterono giungere a Sorrento.

Su “Il Mattino” del 15 novembre ’23, grazie all’impegno di Saltovar, apparve una lunga, particolareggiata cronaca: “una mattinata […] sorta come d’incanto sotto un terso e purissimo cielo opalino – scriveva l’anonimo articolista – accolse […] le preziose ceneri del geniale poeta sorrentino Aniello Califano. Semplice come l’anima del poeta si è svolta la commovente cerimonia”. L’urna, posta su di un catafalco nella cattedrale di Sorrento, fu onorata da una grande, artistica corona d’alloro, su cui fu sistemato un nastro che recitava così: “Sorrento al suo poeta Aniello Califano”.

Al termine del breve, intenso rito funebre, la salma “sotto una pioggia di fiori” fu condotta al cimitero e posta in un loculo, alla destra di chi entra, abbellito da un frondoso alloro bronzeo. Sulla lapide fu inciso, dettata da Libero Bovio, un epitaffio breve, carico di significato: “Aniello Califano, il poeta di Sorrento qui riposa accanto a mamma sua”. E per comprendere, in maniera tangibile, il legame che correva tra don Aniello e Sorrento bisogna tornare al 1870. In quell’anno, nella città del Tasso, nacque il piccolo Aniello Califano, figlio unico di Alfonso, ricco possidente terriero originario di Sant’Egidio del Monte Albino e di Rosa Rispoli, figlia di Aniello Rispoli che nel 1834 fondò la locanda Rispoli, poi trasformato nel Grand Hotel Excelsior Vittoria.

Amato, coccolato e viziato, il piccolo Aniello crebbe tra gli agi di una famiglia ricca. Al padre, in un certo senso, deve la sua passione per la poesia, perché leggere, grazie a don Alfonso, i volumi di Salvatore di Giacomo e soprattutto quelli di Ferdinando Russo. Proprio quest’ultimo, un vero e proprio “mostro sacro” della poesia napoletana, si trasformerà nell’idolo di Aniello, pur avendo soltanto 4 anni di più. Il talento di Russo, infatti, fu precoce e la sua produzione torrenziale. Appena potè, Aniello si lasciò travolgere dalla poesia, coltivando con grande amore lo studio dell’italiano e della storia, le sue materie scolastiche predilette. A questo periodo, inoltre, risale il suo incontro con Saltovar, che tanto avrebbe fatto, poi, per riportare le spoglie del Califano a Sorrento.

Ebbene, i due, più o meno nel 1880, si erano conosciuti per caso, accorrendo per difendere un bambino malmenato da due coetanei. Assieme, poi, seguirono le lezioni di un certo sacerdote, un tal Papini e Saltovar, nel 1923, ricordò che “con lui divisi il pane e calcai gli ardui sentieri dell’arte, e perfino gli spiccioli dibidemmo delle nostre allora ben magre scarselle”. I rapporti tra i due, al di là di tutto, non si affievolirono con il trasferimento di Califano a Napoli, anzi. “Quel nodo di affetto – notava Saltovar – che ci aveva legati dall’infanzia e che profonde radici aveva messo nei nostri cuori, nella lontananza non si spezzò e durarono sempre cordiali i nostri rapporti fino al giorno della sua morte”.

Don Alfonso e la signora Rosa vagheggiavano, di tanto in tanto, un futuro da ingegnere. Per questo motivo, nel 1887, il padre gli affittò un “quartino” a Piazza Carità a Napoli, per seguire l’ultimo anno dell’istituto tecnico. Aniello, però, non sembrava per nulla attratto da questa prospettiva; dopo aver conseguito il diploma, si iscrisse alla facoltà di ingegneria pur vivendo, ormai immerso, nella realtà musicale e teatrale della Napoli di “fin de siècle”. Come notò Nino Masiello, Califano, “fingendosi studente diligente per quasi due anni, ha invece bighellonato vivendo ai margini del mondo di musicisti e delle canzonettiste, il pianeta nel quale si sente a casa”. Conosce il celebre Ferdinando Russo e, con grande coraggio, “si tuffò nel gran pelago della poesia”.

Da allora, poi, fu un crescendo di esperienze, di emozioni: collabora alla rivista “il caffè”, pubblica un volume di rime napoletane che desta grande ammirazione (“Primma Sbrasata”) e inizia a scrivere testi di canzoni, in una Napoli che sembra vorace, affamata di musica e di poesia. Di certo, non riuscirà a raggiungere i grandi della poesia napoletana, cioè Salvatore di Giacomo e Ferdinando Russo, ma la sua penna, ricca di creatività e di estro, non smetterà più di scrivere. Via via, il giovane ed elegante Aniello verrà legandosi ai giovani, rampanti musicisti del periodo, tra i quali Salvatore Gambardella, i maestri Fonzo, de Gregorio, Mancini, Montagna, Di Capua e Cannio. Muovendosi tra i teatri, i “caffè chantant” e i salotti, Califano desta ammirazione per la sua torrenziale produzione, arrivando a scrivere persino una decina di canzoni da presentare ad un unico festival (il più celebre, all’epoca, era quello di Piedigrotta): un vero e proprio torrente in piena!

Esplora, in maniera giocosa e creativa, i sentimenti, l’amore; parla della vita militare e della sua amata Sorrento, si lascia travolgere, senza freni, da una vera e propria “libido creativa”. Ricorderà, in un suo scritto, Nicolino Maldacea che Califano fu “lo scrittore fecondo più che ogni altro, capacissimo di lanciare cinquanta canzoni in un anno. Dalla canzone appassionata passava alla canzone di dispetto, dalla macchietta alla canzone popolare per il primo numero; dalla réclame per il dentifricio o il callifugo alla esaltazione del mare di Sorrento e di Mergellina”. Insomma, per dirla come Saverio Procida, sulla “Lettura” del 1911, “il più fecondo farcitore di versi è Aniello Califano, sempre sorridente e sempre con una canzone in ognuna delle tasche […] avrà scritto duemila canzoni. Per lui il colera, la réclame di un dentista, l’inaugurazione di un monumento, la statizzazione delle società assicuratrici, il telegrafo senza fili e la serenata all’amante sono germi d’ispirazione comportanti egual volo fantastico”.

Nel 1895, in occasione del terzo centenario della morte di Torquato Tasso, scrisse un inno da cantarsi con accompagnamento di chitarre e mandolini, la sera del 25 aprile, intorno alla statua del poeta della Liberata:

 

“Ammore, ammore e gloria ‘e chesta striscia ‘e cielo, quant’ amarezze e spaseme avista suppurtà. Nun fuste ‘o primmo e l’urdemo, ‘o ssaje, tutt”e grand’uommene cu stu destino nasceno, l’arte sti spine dà!

A luna ‘ncielo, guardala, pare ca s’è ‘ncantata, ‘e stelle assaje chiù sbrenneno p “a festa ‘ e sta serata. Cchiù forte ‘e sciure addorano P”e monte e p “e ciardine, tutte ‘e serene correno cantanno a ste marine!

 

Riemergeva, dalle pieghe di questa poesia in musica, un amore intenso per la sua città natale, talvolta oscurato dall’invidia che, pian piano, andò sviluppando nei confronti dei fratelli Ernesto e Giambattista de Curtis. Questi, al servizio di Guglielmo Tramontano, avevano abbellito l’albergo sorrentino con affreschi e pitture, ma, al tempo stesso, avevano regalato a Sorrento melodie indimenticabili, tra le quali “Torna a Surriento”, “A Surrentina”, “Surriento bello”, “Marenare ‘e Surriento”. Alcune di queste canzoni, musicate dal maestro Vincenzo Valente (che tra l’altro aveva armonizzato magnificamente “Carmela”, altro capolavoro di Giambattista de Curtis) si erano affermate come successi unici, quasi inarrivabili.

Si raccontava che, nel 1907, giunto a Sorrento per riscuotere alcuni fitti, Califano si fosse recato al Tramontano, ospite di don Guglielmo. Lì, affacciati sul mare, il patron dell’albergo lo stuzzicò, alla presenza dei fratelli de Curtis e di altri, facendogli notare che proprio i due fratelli, napoletani e non sorrentini, avessero reso con i loro versi Sorrento immortale. Califano, offeso da quelle affermazioni, se ne tornò a casa, scrivendo di getto, forse accecato dalla rabbia e dalla gelosia, una delle sue più belle canzoni, poi musicata da Salvatore Gambardella, “Serenata a Surriento”:

 

“Surriento Gentile, suspire d’ammore,
Delizia ‘e stu core,
Tu si’ nu buchè!

Surriento, Surriento!
So’ fatte pe ‘ncantà
‘Stu cielo, ‘sti ciardin,
Chest’aria, ‘sti marin!”.

 

Per alcuni anni, come notò Antonino Cuomo, questa canzone sembrò oscurare “Torna a Surriento”, per poi finire, lentamente, nell’oblio. Califano, però, non sembrò risentirne e scrisse, scrisse, senza remore né freni, senza fermarsi. Nel 1915, all’indomani della discesa in guerra del Regno d’Italia, pubblicò la sua canzone più famosa, affidata all’armonizzazione del maestro Cannio: “‘o surdato nnammurato”.

“Surriento”, uno dei capolavori di Aniello Califano

Era la consacrazione di un autore prolifico, geniale, tanto che, nella Piedigrotta Gennarelli del 1916, fu definito “ammiraglio della canzone ed i mari nei quali manovrano le sue squadre di versi non sono che quelli di Napoli e Sorrento”. Cantò l’amore innumerevoli volte, senza che, a dispetto di tutto, la sua vena poetica risultasse esaurita. Nel 1918, un anno prima della sua morte, Califano tornò a Sorrento e visitò l’eremo del Deserto a Sant’Agata sui Due Golfi, allora occupato dai padri bigi di San Ludovico da Casoria. Sul libro degli ospiti, invitato a lasciare un ricordo, scrisse alcuni versi di “Seranata a Surriento”. Il furbo priore del Deserto, scattata una foto del registro, fece realizzare una serie di cartoline ricordo da vendere ai visitatori.

La tomba Sorrentina di Aniello Califano. L’iscrizione, breve ma al tempo stesso commovente, fu dettata nel 1923 dal poeta Libero Bovio.

Califano, saputolo, ne fu scosso, pensò pure di citare in giudizio i frati, ma poi desistette: sognò la madre, la signora Rosa Rispoli, che lo invitata a non mettersi “contro un’opera della chiesa”. Forse era già un presagio funesto, di morte. Nel febbraio del 1919, già debilitato e ammalato, si recò a Roma per conoscere il presidente americano Wilson, al quale, già nel 1918, aveva mandato le sue poesie. Al ritorno a Sant’Egidio del Monte Albino, dove aveva trasferito da anni la sua residenza, la situazione si fece critica. Prima di morire, grazie all’intercessione del parroco di San Lorenzo, Aniello Califano riconobbe i figli avuti dalla governante e amante Stella Pepe, spirando, dopo due giorni di agonia, il 20 febbraio del 1919.

In paese, in poco tempo, si diffuse la voce che don Aniello fosse morto di vaiolo o di febbre spagnola, perciò la salma, interrata in tutta fretta, non ricevette onori nè cordoglio. Nel 1923, poi, grazie a Saltovar e agli amici sorrentini, le spoglie del poeta giunsero a Sorrento e nel 1953 l’amministrazione comunale volle eternare il ricordo di Califano con l’intitolazione di una strada.

Incisi sul marmo, proprio a via Califano, i versi immortali della canzone “Surriento” sembrano accogliere i visitatori e, nell’aria, sembra di sentire l’eco di versi lontani, dolci e soavi:


Surriento è nu paese affatturato
Surriento è nu paese ncantatore
E sulamente chi nun tene core
E stu ciardino se ne po scurdà:
 Ah, Surriento, delizia d’o munno
 Chi te vede rummane ncantato
St’aria bella, stu mare affatato
  Manco ncielo se ponno truvà!

Surriento è o nivo d’e guaglione belle
E’ tutto sentimento e puisia,
Addò nascette ammore e simpatia
Malincunia nun nce po rignà

Ah. Tramuntano bello, chi s’affaccia
A fora sti balcune e guard’a mare,
Nu suonno e fantasia tutto le pare
E penza: O Paraviso che sarrà?”

 

Gennaro Galano

La grotta di Giano